Mi hanno chiesto cosa ne penso della castrazione chimica ai pedofili.
Che, da quanto ho capito, è un po’ come quel chip che si mette ai cani per evitare il taglio dei testicoli, evitando nel contempo che vadano in giro a riprodursi.
Il più elementare dei sillogismi mi permette, considerata la premessa di cui sopra, di dedurre che la castrazione chimica equivale a trattare un uomo (donna no?) pedofilo come un cane in sentor di primavera, con la differenza che nel caso del cane decide il padrone, nel caso dell’umano è su base volontaria per ottenere qualche beneficio in fase di giudizio. Spero di sbagliarmi, di aver capito male. Spero di essere coperta di insulti e di link che mi rimandino alla giusta proposta.
Comunque partendo da queste miei spunti ho risposto: “Ma, forse è meglio ammazzarlo (il pedofilo) perché se la ratio che sta dietro alla castrazione chimica è quella che questa pratica gli impedirà di commettere atti innominabili mi chiedo cosa accadrà una volta svanito l’effetto dal momento che un fine pena deve essere pur previsto”. “Ma no, la pena di morte no!”. E perché no? E perché la castrazione deve essere solo chimica? “Perché inibendo gli ormoni il pedofilo non sarà più in grado di fare certe cose”. Okay, esclusa la penetrazione sarà in grado di fare tutto il resto. Le cose sono due: o è vero che l’uomo (inteso come maschio) ragiona con il cervello che ha tra le gambe e a questo punto impediamo al cervello di pensare oppure consideriamo l’ipotesi che la pedofilia non parte dal cazzo (scusate) ma da un altrove su cui sarà il caso di indagare. Allora gli facciamo l’elettroshock, gli mettiamo la camicia di forza e già che ci siamo anche un po’ di camera a gas.
In questo mondo popolato di psicologi e di avvocati ci vorrebbero più giuristi e studiosi di una scimmia nuda scesa da un albero e messa al cospetto di Dio.
Riflettere anche senza trovare una soluzione, perché davvero una soluzione allo stato attuale non c’è potrebbe essere un inizio.