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Filologico, romanzo spicciolo - Cap.XXV

Da Piccole donne a Sex and city

Non ho idea del perché mi sia venuto in mente, ma mi è venuto in mente: un parallelo socio-letterario tra le quattro sorelle di “Piccole donne” e le quattro amiche di Sex and City.

Stavo al mare domenica mattina, giornata ventosa e meglio così altrimenti non si poteva resistere, sdraiata sul lettino al quale mi sono arresa dopo anni di militanza da asciugamano sulla sabbia, e mentre stavo sdraiata a guardarmi intorno mi viene da pensare a questa cosa. Penso che le donne debbono sempre raffigurarsi in quattro. Perché? Probabilmente due sono poche per raffigurare l’universo femminile, tre porterebbe all’isolamento della terza in caso di disaccordo e conseguente alleanza tra le prime due. Quattro vanno bene, cinque iniziano a essere troppe.

Meg, Jo, Beth, Amy (a memoria, non ho chiesto aiuto a Google).

Samantha, Carrie, Charlotte, Miranda (in che ordine vanno messe? Piccole donne di età, ma queste?).

Direi subito che Charlotte è l’omologa di Amy in salsa moderna. Ero indecisa con Meg, bellissima e superperfetta, ma troppo soddisfatta della sua modestia per tenere il passo a Charlotte. Inoltre Amy ama le arti figurative, Charlotte è una gallerista. Entrambe fanno un buon matrimonio, economicamente si intende, tutto il resto è figlio dei tempi di ciascuna.

Calza un po’ meno a pennello, ma calza, pensare Carrie come la versione terzo millennio di Jo. Scrittrici, tutte e due di aspetto gradevole, tuttavia non vengono ammirate per la loro bellezza ma per il loro “insieme”: l’aspetto fisico diventa un corollario del carattere che invece rimane molto impresso. Estroverse eppure capaci di intimidirsi di fronte ad alcuni passaggi della vita.

Forzando la mano si può arrivare a tracciare un parallelo tra Meg e Miranda. Miranda la studiosa, Miranda l’avvocato di grido che pure per amore alla fine sposa un uomo molto meno in vista di lei e accetta di trasferirsi da Manhattan a Brooklyn. Meg la piena di qualità che potrebbe ambire ai ceti più alti e invece sposa il professore che ama. Una vita che non svetta ma che la rende felice. Come Miranda quando si trova a giocare tra la neve con il figlio e il cane.

E Samantha dove la metto? E Beth? In questi due personaggi sta tutta la novità di Sex and City rispetto a Piccole donne. È il quarto personaggio che segna la vera differenza tra le epoche. Se Amy fosse vissuta nella New York del ventunesimo secolo sarebbe stata esattamente come Charlotte. Jo come Carry e Meg come Miranda.

Ma se Beth avesse potuto usufruire della medicina di fine millennio sarebbe guarita, sarebbe viva, ma non sarebbe come Samantha. Anzi, non riusciamo proprio a immaginare come sarebbe Beth perché è la meno caratterizzata delle sorelle March. Beth è malata, vive nella sua dimensione di persona costantemente sotto controllo, non le è permesso di uscire dal suo personaggio. Sta lì e alla fine neanche i lettori le si affezionano, quando muore il racconto prosegue senza lasciare alcun vuoto. Il suo saluto alla vita non è tragico, è qualcosa di accettato fin dall’inizio del racconto. L’esistenza di Beth è trascorsa guardando il momento della sua scomparsa. Un essere umano così delicato, che vive e muore in punta di piedi, non riesce proprio a trovare spazio nell’epoca dei superuomini. La malattia si affronta, si guarda in faccia. Non può esserci rassegnazione di fronte a un destino scivoloso. Beth è scomparsa non solo a un certo punto di “Piccole donne crescono”, Beth è scomparsa dall’interpretazione della vita stessa. Non a caso in Sex and City è Samantha che a un certo punto si ammala. Non si posso toccare i modelli della femminilità, Meg-Miranda / Jo-Carrie / Amy-Charlotte, senza di loro il racconto non ha l’ossatura. Ma se in Piccole donne crescono era facile eliminare la sussurrata Beth, in Sex and City diventerebbe un problema fare fuori Samantha, la vera novità in fatto di stereotipi in rosa.

Samantha la divora uomini tutta carriera e tacchi alti che si fa gli affari suoi fregandosene del giudizio degli altri non può scomparire. Samantha affronta la malattia, grave, con il coraggio e la paura che da lei non ti aspetti. Non si racconta le favole, agisce consapevole di stare tra le mani della roulette russa del destino.

Sarà per questo che abbiamo amato Samantha e molto di meno Beth? Quell’arrendersi di fronte a una fine segnata, confessiamolo, non lo abbiamo mai tollerato. Beth non ci ha lasciato alcuna speranza. Beth si è arresa da sempre alla sua sorte. Avremmo voluto tutte tenderle una mano, dirle dai esci un po’, prendi un po’ d’aria. Invece lei rimaneva lì, mansueta nel suo letto a guardarci mentre noi correvamo incontro alla vita. Ci ha dato il primo grande letterario senso di colpa. Per superarli ci è voluta, decenni dopo, Samantha.

IL PATTO DI MISAMBOR

     IL PATTO DI MISAMBOR

Pianeta Terra, anno 12065. Dopo millenni di battaglie tra tecnologici, ambientalisti e religiosi viene firmato il Patto di Misambor grazie al quale l’uomo dovrebbe vivere felice e in pace per l’eternità. Infatti per i primi secoli le cose vanno esattamente così. Ma “eternità” è parola grossa da digerire: per questo motivo nel Patto di Misambor vengono inserite due clausole: la prima, richiesta dagli ambientalisti, esige che comunque sia previsto un ciclo nascita-crescita-maturità-vecchiaia. La seconda, richiesta dai religiosi e ben più complessa, sancisce la possibilità della morte. Qualunque essere umano muore nel momento in cui sulla terra nessuno gli vuole più bene.

Non c’è neanche uno straccio di astronave in questo romanzo ambientato tra diecimila anni, né si va a passeggio tra le stelle e tantomeno tra le scimmie. In fondo l’umanità riesce sempre a superare se stessa.

 

Autore: Maria Corsetti

Titolo: Il Patto di Misambor

Editore: Falco Editore

Anno di pubblicazione: 2012

Pagine: 112

Prezzo: 10 euro

Copertina di Lorenzo Moriconi

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