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Filologico, romanzo spicciolo - Cap.XXII

La sindrome del morto di fame

Tanto parlare dei pidocchi rifatti, mai sentita una parola contro gli affetti da sindrome da morto di fame. Che è cosa diversa dall’essere avari. Anche qualora conduca una vita di estremo disagio, l’avaro è consapevole di avere. Solo che è avaro. Ha una sua dignità, il suo vizio è definito capitale, è qualificato. La sindrome del morto di fame è cosa completamente diversa: colui che ne è affetto è assolutamente convinto di non potersi permettere nulla di appena superfluo. Il nostro vive al di sopra della soglia minima della sopravvivenza. Non ha da scialare, ma a fine mese ci arriva. Facendo delle economie, facendo attenzione al portafogli, ma ci arriva mangiando, bevendo, vestendosi e pagando le bollette. Solo che ogni piccolo lusso assume l’aria di una esorbitante spesa imprevista. Siamo a Roma, nel cuore di Roma. Nel cuore del mondo, quindi. Lascia perdere che da Latina ci arriviamo con un’ora di macchina e ci andiamo più spesso degli stessi romani che vivono in periferia: il centro di Roma è uno dei posti più sognati del mondo. Allora se ti siedi in uno dei bar più ambiti della terra, con il tavolino all’aperto, sistemato con una bella tovaglietta di cotone e il cameriere che scatta, come fai a lamentarti che un caffè invece di ottanta centesimi lo paghi due euro e cinquanta? “No, è troppo, a Latina che è già una città costosa lo paghi molto di meno”. Infatti Latina non ha ventisei milioni di turisti l’anno. Una ragione ci sarà? Allora il caffè vattelo a prendere a Latina e, se proprio devi andare a Roma, portatelo da casa dentro il thermos.

La cosa peggiore dell’affetto da mortedifamite è che non è neanche scroccone. Sennò sarebbe tutto più facile: gli offri il costoso caffè usando la delicatezza di non far notare l’importo del conto e la cosa finisce là. Invece offe lui/lei (la sindrome colpisce indistintamente maschi e femmine) e poi si lamenta tutto il tempo. Ed è una cosa terribile perché metti che a te va anche di mangiare un cornetto, ti privi di farlo per non dare un ulteriore dolore a chi ti accompagna.

La prossima volta mi porto direttamente la borsa termica con bibite, pane e cotoletta, caffè e frutta già sbucciata e faccio un bel picnic sulla scalinata di Trinità dei Monti.

A fronte delle mie proteste una mia amica affetta dalla sindrome in esame mi ha fatto notare che il conto del bar costava quanto la borsa (poco più di un marsupio in similpelle) appena acquistata. Che semmai fosse economica borsa è stata questione non considerata.

Variante, perché c’è anche la variante, della sindrome da morto di fame. In realtà sono indecisa se catalogarla in una specie completamente diversa. Vediamola insieme, poi giudicate voi. La chiamerei sindrome del ma quanto l’hai pagato. Segue spiegazione minuziosa di dove e come pagare di meno. Che a volte è utilissima. Certi oggetti hanno variazioni di prezzo notevolissime, basta prendere pezzi non originali – che per un caricabatterie di cellulare non è cosa fatale – e si paga la metà della metà. In altri casi c’è da fare tutto un giro strano che già a pensarlo io dico subito che sono disposta a versare cinque euro in più. Invece no, i maquantol’haipagato sono una persecuzione. Ti controllano a vista, ti impediscono di entrare in quel negozio che a te piace tanto perché vende elettrodomestici e c’è anche chi ti spiega come funzionano e se hai un problema li chiami e te lo risolvono, e ti catapultano in qualche grande magazzino dove non ti si fila nessuno e ti danno il libretto delle istruzioni dove c’è anche la traduzione in lingua swahili ma manca quella in italiano. “E leggile in inglese, che non sei capace?” “E ho appena speso ottocento euro, avrò diritto a una spiegazione nella mia madrelingua?”. I maquantol’haipagato imperversano in ogni settore. Abbigliamento: “Ma quanto l’hai pagate queste scarpe? Lo dicevi a me che conosco uno che le vende nel garage di casa sua, le paghi la metà. Non ha tutti i colori, ma sono tali e quali a quelle del negozio”. E se a me invece di andare in un garage a prendermi un paio di scarpe del colore deciso dal padrone di casa, mi va di entrare in un negozio, sedermi sul puff bello morbido, affondare il piede nudo nella moquette a pelo lungo, farmi portare dieci paia di scarpe e alla fine decidere per quel paio delizioso di un rarissimo rosa confetto?

Dedicato ad Alessandra Rotondi, la mia insostituibile e fantastica stagista: non me ne frega niente che a Borgo Grappa le pesche costano cinque centesimi in più al chilo rispetto al mercato di Cisterna. Si dà il caso che quando torno dal mare mi viene più comodo, considerato che abito a Latina, passare per Borgo Grappa piuttosto che per Cisterna.

 

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Commenti

  • Luigia Paglia (mercoledì, 16. ottobre 2013 16:14)

    Come ci rieesci tu a descrivere certe tipologie , pochi . Mi diverto un mondo a leggerti , che poi possiamo operare un bel transfer in qualsiasi altra città . Mal comune mezzo gaudio ?

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IL PATTO DI MISAMBOR

     IL PATTO DI MISAMBOR

Pianeta Terra, anno 12065. Dopo millenni di battaglie tra tecnologici, ambientalisti e religiosi viene firmato il Patto di Misambor grazie al quale l’uomo dovrebbe vivere felice e in pace per l’eternità. Infatti per i primi secoli le cose vanno esattamente così. Ma “eternità” è parola grossa da digerire: per questo motivo nel Patto di Misambor vengono inserite due clausole: la prima, richiesta dagli ambientalisti, esige che comunque sia previsto un ciclo nascita-crescita-maturità-vecchiaia. La seconda, richiesta dai religiosi e ben più complessa, sancisce la possibilità della morte. Qualunque essere umano muore nel momento in cui sulla terra nessuno gli vuole più bene.

Non c’è neanche uno straccio di astronave in questo romanzo ambientato tra diecimila anni, né si va a passeggio tra le stelle e tantomeno tra le scimmie. In fondo l’umanità riesce sempre a superare se stessa.

 

Autore: Maria Corsetti

Titolo: Il Patto di Misambor

Editore: Falco Editore

Anno di pubblicazione: 2012

Pagine: 112

Prezzo: 10 euro

Copertina di Lorenzo Moriconi

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